La sfida demografica nel biellese tra calo della natalità e invecchiamento della popolazione
di Franca Maino e Valeria De Tommaso
Il concetto di invecchiamento demografico definisce un duplice fenomeno: da un lato, il calo delle nascite (l’invecchiamento dal basso) e, dall’altro, il progresso medico-scientifico, sociale ed economico grazie al quale le persone vivono più a lungo (l’invecchiamento dall’alto). L’ageing society – per indicare la crescita graduale della popolazione al di sopra dell’età della pensione – è un fenomeno inarrestabile e con conseguenze per l’individuo, la famiglia e la società. Se da una parte, quindi, vivere più a lungo rappresenta un traguardo per le società industrializzate e contemporanee, dall’altra, negli ultimi dieci anni l’andamento del tasso di fecondità è precipitato notevolmente, ponendo importanti sfide al sistema di welfare pubblico e alle famiglie.
La Provincia di Biella si colloca al primo posto tra le province piemontesi e italiane per numero di anziani (circa 276 ogni 100 bambini) e questo può essere interpretato come un fenomeno poliedrico, analizzabile da diverse prospettive. Ve ne parliamo in questo articolo partendo dai dati riportati nel I Rapporto annuale 2021 dell’Osservatorio territoriale del biellese.
Longevità e calo delle nascite: le due facce di uno squilibrio in crescita
Nella Provincia di Biella, negli ultimi 10 anni, l’aumento dell’indice di invecchiamento[1] (o vecchiaia) ha superato i 60 punti percentuali, passando da 215,6 nel 2011 a 281,5 nel 2021 (Figura 1). Tale valore è superiore alla media italiana (183,3) di circa 100 punti percentuali (p.p.) e di 70 p.p. rispetto a quella piemontese (215,6). Questa dinamica demografica – accompagnata, in parallelo, dall’aumento del tasso di mortalità (da 12,4 nel 2011 a 13,6 nel 2019 e, nell’anno della pandemia, a 18,1) – testimonia una progressiva (e rapida) evoluzione della struttura demografica della popolazione e, al contempo, il primato per longevità della Provincia di Biella.
Tale primato “positivo”, però, non si conferma tale per il tasso di natalità[2]. Il tasso di natalità (per mille abitanti) ha subito un decremento di due punti percentuali, passando da 7 a 5 (6,3 in Piemonte e 6,8 in Italia) dal 2011 al 2021. Già nel 2011, i valori del Biellese si collocavano al di sotto della media italiana (9,1) e piemontese (8,6). Alla contrazione delle nascite segue peraltro l’avanzamento dell’età al concepimento del primo figlio – che nel 2020 è pari a 32,3 anni a Biella (32,2 in Italia e in Piemonte, 29,4 in Europa) – e l’aumento delle possibilità che quel figlio rimanga poi “figlio unico”. Nella Provincia di Biella, il numero medio di figli[3] concepiti per donna è pari a 1,1 (1,24 in Piemonte e 1,27 in Italia).
Il territorio di Biella si caratterizza quindi per uno squilibrio generazionale tra le due fasce “inattive” della società e che vede, da un lato, una porzione sempre più rilevante di anziani over 65 anni e, dall’altro, una contrazione significativa delle nascite e dei giovani con età compresa tra 0 e 14 anni. A tal proposito, l’indice di dipendenza strutturale[4] (Figura 2) nella Provincia di Biella è aumentato di circa 7 punti percentuali dal 2011 al 2021 (da 59,8 a 66), riconfermando il primato a livello regionale. Lo stesso aumento ha riguardato, in misura più lieve, anche il Piemonte (da 56,4 a 61,3) e l’Italia (da 52,7 a 56,8).
I dati appena presentati ci restituiscono un quadro complesso e che consente di avanzare almeno tre riflessioni più generali.
In primo luogo, il fenomeno dell’invecchiamento e il calo della natalità pongono importanti sfide alla sostenibilità del welfare pubblico: riducendosi il numero di coloro che sono in età lavorativa – e che, quindi, contribuiscono con il versamento dei contributi da lavoro al finanziamento del sistema previdenziale e, più in generale del sistema di protezione sociale attraverso il pagamento delle imposte – il peso del “patto intergenerazionale” grava sempre di più sulle nuove generazioni.
In secondo luogo, il primo figlio si fa già molto tardi e, con l’avanzare dell’età, sorgono complicazioni legate alla fertilità. Inoltre, sempre più spesso le difficoltà economiche, legate all’assenza o alla precarietà del lavoro e all’impossibilità di conciliare occupazione e famiglia, disincentivano o ritardano la scelta di diventare genitori: i giovani sono allora sempre più costretti a spostare in avanti il raggiungimento dell’autonomia rispetto ai genitori.
Infine, la famiglia continua a svolgere un importante ruolo di compensazione del welfare e si fa carico degli oneri di cura e assistenza legati alle fragilità psico-fisiche e sociali degli anziani (oltre che dei bambini). Le riflessioni che seguono puntano a focalizzarsi su quest’ultimo punto.
Vivere più a lungo equivale a vivere meglio?
Nei paesi industrializzati, il miglioramento delle condizioni di sopravvivenza della popolazione ha dunque comportato un aumento della speranza di vita alla nascita[5]. Nella Provincia di Biella, i dati Istat del 2019 stimavano la speranza di vita a 80,5 per gli uomini (80,7 in Piemonte e 81,1 in Italia) e 85,2 per le donne (85,2 in Piemonte e 85,4 in Italia). Nel 2020, l’anno della pandemia, il valore biellese è sceso a 78,3 anni per gli uomini (79 in Piemonte e 79,7 in Italia) e 84,2 per le donne (83,8 in Piemonte e 84,4 in Italia). Nel 2020, la speranza di vita alla nascita torna ad avere valori più bassi rispetto al 2011: anche in riferimento ai dati del 2019, il dato pare non aver subito un incremento significativo e mantiene andamenti analoghi a quelli dell’invecchiamento.
Ma cosa suggerisce l’indice sulla speranza di vita alla nascita? Il dato esprime, appunto, il numero medio di anni residui nella vita di un essere vivente a partire da una certa età, all’interno di una data popolazione. Questo indice demografico esprime lo stato di salute della popolazione che, a sua volta, dipende dalla struttura della popolazione e dai tassi di mortalità osservati durante un anno di calendario. Le oscillazioni che interessano la speranza di vita sono dovute alle variazioni dei tassi di mortalità degli anziani, soprattutto ultrasettantacinquenni (i cosiddetti, anziani fragili) che ad oggi rappresentano circa il 10% della popolazione italiana (il 15,51% di quella biellese). I continui miglioramenti nella sopravvivenza si sono dunque accompagnati ad una variabilità nella mortalità nelle età più anziane, spostando le disuguaglianze di salute dai primi anni di vita alla vecchiaia (ed è qui che si manifestano crescenti disuguaglianze nella mortalità).
Vivere più a lungo non è, quindi, sinonimo di vivere meglio. Nel nostro Paese all’aumento dei tassi di invecchiamento non è seguito un miglioramento proporzionale delle condizioni di vita e di salute della popolazione anziana e, sempre di più, il fenomeno dell’invecchiamento si porta dietro un carico sempre maggiore di patologie croniche, comprese quelle disabilitanti. Il longevity shock (così come nel 2012 lo ha definito il Fondo Monetario Internazionale) descrive la situazione in cui all’aumento dell’aspettativa di vita segue un rapporto sempre più sfavorevole tra popolazione attiva e inattiva e, inoltre, l’aumento dell’onere socioeconomico correlato alla cura, all’assistenza e alle spese previdenziali destinate gli anziani. Nel territorio biellese – in cui ci sono circa 27 anziani ogni 10 bambini – il rapporto sbilanciato tra la popolazione attiva e inattiva rischia di diventare un fattore di insostenibilità economica per il welfare pubblico locale a fronte di crescenti bisogni di cura e, al contempo, il ridursi della forza lavoro disposta a soddisfarli.
L’assistenza e la cura nell’epoca delle “generazioni sandwich”
Nell’attuale accezione di “Invecchiamento”, lo stato di salute dell’anziano si identifica con il mantenimento del benessere psicofisico e relazionale, pur in presenza di polipatologie. In un sistema di welfare state “mediterraneo”, come quello italiano, l’onere di cura ricade prevalentemente sulle famiglie e il welfare pubblico fatica a fare i conti con il carico di gestione della Long Term Care (in italiano, l’assistenza di cura continuativa) di fronte alla sfida dell’invecchiamento e alla solitudine degli anziani fragili.
Quali sono le reali implicazioni, su questo fronte, dell’invecchiamento? Torna in auge il fenomeno della generazione sandwich, costituita da adulti 45-60enni, “stretti” (come, appunto, in un sandwich) tra i carichi di cura dei figli piccoli e dei genitori invecchiati a cui dare supporto. In riferimento al fenomeno appena richiamato, si pone particolare attenzione sull’aumento dell’età media dei cittadini.
Dal 2011 al 2021, l’età media[6] nella Provincia di Biella è salita da 47,1 a 49,6. Sebbene un incremento analogo abbia interessato anche le altre province piemontesi, il contesto biellese pare aver subito un’accelerazione degli andamenti negli ultimi cinque anni (circa +0,3 punti percentuali annui, a differenza delle altre province piemontesi in cui l’incremento non ha superato i +0,2 punti percentuali). Il dato sull’età media suggerisce come, dal 2011 al 2021, il peso dell’ammontare della popolazione si sia progressivamente sbilanciato verso la popolazione nella seconda metà del periodo in età lavorativa (15-64 anni), superando di gran lunga la media dei 40 anni.
Sebbene si tratti di un dato che non stupisce rispetto a quanto illustrato finora, esso lascia spazio ad ulteriori riflessioni che riguardano la struttura del nucleo familiare e la distribuzione degli oneri di cura nel medio-lungo periodo. Il nodo potrà riguardare le future generazioni che, rispetto ad oggi, avranno una speranza di vita più lunga, solo un figlio (o nessuno) e, quindi, una restrizione del perimetro dei potenziali “caregiver” informali, cioè di familiari che potranno prendersi cura di loro.
Proprio in riferimento a quest’ultimo punto, l’assistenza formale e/o informale agli anziani, si ritiene opportuno porre l’attenzione su un altro dato di interesse: il saldo migratorio. Questo indicatore – che esprime il numero di iscritti e il numero di cancellati dai registri anagrafici per trasferimento e/o residenza, è centrale sia in termini di ricambio generazionale sia di forza lavoro, in particolare per l’assistenza agli anziani – aggiunge importanti spunti all’analisi.
Nella Provincia di Biella, il saldo migratorio[7] nel 2020 era pari a -0,3% (-0,7 in Italia e +0,2 in Piemonte), circa 1,8 punti percentuali in meno rispetto al 2011 (in cui, Biella, registrava un saldo migratorio di +1,8%, mentre il dato italiano era il 3,4% e quello piemontese 3,9%).
Tale valore negativo (-0,3) suggerisce come il flusso migratorio sia nettamente superiore rispetto a quello dell’immigrazione e, anche in quest’area, la Provincia di Biella detiene il primato tra le province piemontesi. Un dato che oltretutto è confermato da una ridotta presenza di stranieri ogni 100 residenti (5,63 a Biella, contro i 9,62 in Piemonte e 8,5 in Italia).
Gli andamenti dell’indice nella Figura 5 sono rilevanti per almeno due motivi. In primo luogo, l’analisi della struttura per età della popolazione europea rivela che, per l’Unione Europea nel suo insieme, la popolazione straniera è nettamente più giovane di quella nazionale. La distribuzione per età degli stranieri mostra infatti una maggiore porzione di adulti in età lavorativa relativamente più giovani rispetto ai cittadini dell’UE. L’immigrazione consente quindi di tenere vivo il ricambio generazionale e, al contempo, di bilanciare la porzione di cittadini in età attiva rispetto a coloro che sono già in pensione.
In secondo luogo, in un sistema sociosanitario in cui la logica prevalente del welfare pubblico è di tipo “assistenziale” e “residuale”, una porzione significativa di assistenti familiari è rappresentata dalla forza-lavoro straniera. Se il bisogno di cura è aumentato (a fronte, soprattutto, dell’incremento del numero di anziani) e il numero delle potenziali prestatrici di cura è diminuito (in conseguenza, ad esempio, del maggior numero di donne che entrano nel mercato del lavoro, la riduzione di donne in età centrale e potenziali prestatrici di cura per gli anziani e l’ammontare di tempo che le donne sono disposte a dedicare a questa attività) diventa quindi strategico avere contezza dell’interazione tra i dati qui riportati.
Conclusioni: ponderare le scelte di policy partendo dai dati e integrando gli interventi
L’indicazione, “ponderare le scelte di policy” va in questa direzione e si dovrebbe tradurre in spezzare il cerchio dell’invecchiamento, della solitudine e della fragilità, guardando con attenzione al concatenamento di cause che possono incentivare o ridurre il ricambio generazionale a livello nazionale ma, più nello specifico, a livello locale.
I dati ci hanno mostrato come il declino demografico non sia solo una questione di calo della popolazione: riguarda anche lo squilibrio tra generazioni con le implicazioni sociali ed economiche che ne derivano. In Italia, il fenomeno del “degiovanimento” (o, appunto, riduzione dei giovani) è tendenzialmente più forte dell’invecchiamento (l’aumento degli anziani): perdiamo più giovani rispetto a quanti anziani guadagniamo.
Favorire la ripresa delle nascite è tuttavia una condizione necessaria (oltre che urgente) ma non sufficiente. Le misure nazionali e locali dovranno assicurare una presa in carico sempre più integrata e multidimensionale, concentrandosi su almeno tre aree di intervento: promuovere politiche di conciliazione tra vita personale e vita lavorativa che investano, da un lato, sulle misure che riguardano i percorsi educativi dei minori e, dall’altra, sull’assistenza agli anziani; migliorare la formazione di base e l’acquisizione di competenze sempre più avanzate e in linea con le evoluzioni del mercato del lavoro (favorendo, quindi, un più rapido inserimento e re-inserimento dei giovani nel mercato del lavoro) e, infine, rafforzare i sistemi di domiciliarità per gli anziani (SAD e ADI, ma anche servizi innovativi di care rivolti agli anziani fragili e/o non autosufficienti) al fine di garantire una presa in carico continuativa presso il domicilio, riducendo così i casi di ospedalizzazione, o forme di residenzialità leggera scarsamente disponibili ad oggi nel nostro Paese. Si ritiene, inoltre, utile porre attenzione alla gestione dei flussi migratori in entrata, funzionali ad un ripensamento del modello di sviluppo socio-economico e alla possibilità di una integrazione dinamica nel nostro sistema sociale.
Infine, nuove opportunità si possono aprire con le misure e i fondi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). I giovani sono infatti un obiettivo prioritario e trasversale del Piano che, al contempo, prevede un buon livello di investimento complessivo per la modernizzazione del sistema di long term care per gli anziani (mediante, inoltre, l’introduzione dei livelli essenziali delle prestazioni) e la diversificazione degli interventi residenziali e domiciliari. Interventi che potrebbero contribuire a ridefinire l’onere di cura a carico delle famiglie, rispondendo – in maniera (più) integrata – alle sfide qui citate: invecchiamento e calo demografico.
Per approfondire
De Gregorio, O. e Moroni, P. (2022), Non c’è ripresa senza politiche migratorie, Percorsi di secondo welfare, 21 febbraio 2022
International Monetary Fund (2012), The Financial Impact of Longevity Risk, in Global Financial Stability Report, Capitolo 4, United States
Maino, F. (2021), Bisogni e cura: perché sull’invecchiamento dobbiamo giocare d’anticipo, Buone Notizie del Corriere della Sera, 18 dicembre 2021
Riva, P. (2021), L’Italia invecchia, ora un patto per il welfare, Buone Notizie del Corriere della Sera, 18 dicembre 2021
Rosina, A. (2016), Perché dobbiamo preoccuparci della crisi demografica, Lavoce.info, 14 giugno 2021
Note
[1] L’indice di vecchiaia, secondo Istat, esprime il Rapporto tra la popolazione di 65 anni e oltre e la popolazione di età 0-14 anni, moltiplicato per 100.
[2] L’indice, secondo Istat, esprime il rapporto tra il numero di nati vivi dell’anno e l’ammontare medio della popolazione residente, moltiplicato per 1.000.
[3] Il dato, secondo Istat, esprime il numero medio di figli per donna. In un anno di calendario (anno di evento), è dato dalla somma dei tassi specifici di fecondità calcolati rapportando, per ogni età feconda, il numero di nati vivi all’ammontare medio annuo della popolazione femminile di quell’età. Riferito alla generazione, misura il numero medio di figli messi al mondo al termine della vita feconda da 1.000 donne appartenenti ad una certa generazione in ipotesi di mortalità nulla.
[4] L’indice, secondo Istat, esprime il rapporto tra la popolazione in età non attiva (0-14 anni e 65 anni e oltre) e la popolazione in età attiva (15-64 anni), moltiplicato per 100.
[5] L’indice, secondo Istat, esprime il numero medio di anni che una persona può contare di vivere dalla nascita nell’ipotesi in cui, nel corso della propria esistenza, fosse sottoposta ai rischi di mortalità per età dell’anno di osservazione.
[6] L’età media della popolazione residente a una certa data, secondo Istat, è espressa in anni e decimi di anno. È ottenuta come media ponderata con pesi pari all’ammontare della popolazione in ciascuna classe di età.
[7] Il saldo migratorio esprime, secondo Istat, la differenza tra il numero degli iscritti e il numero dei cancellati dai registri anagrafici per trasferimento di residenza.