Conciliare: vita, lavoro e famiglia

di Franca Maino e Valeria De Tommaso

Con conciliazione vita-lavoro si fa riferimento agli interventi, le misure e le politiche volte a facilitare la conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro. Lo spettro di attività che rientra nel concetto di “tempi di vita” spazia dalle esigenze familiari sino a quelle di vita sociale e relazionale. Le politiche per la conciliazione rappresentano un importante fattore di innovazione dei modelli sociali, economici e culturali. Tali politiche si propongono di fornire strumenti che, rendendo compatibili la sfera lavorativa e familiare, consentono a ciascun individuo – uomo o donna – di vivere al meglio i molteplici ruoli che spesso ricopre (genitore, lavoratore/trice, cittadino). In generale, esse interessano individui e organizzazioni e toccano sia la sfera pubblica che privata, inclusa quella politica e sociale, avendo un ruolo e un impatto evidente sul riequilibrio (o, secondo alcuni, “bilanciamento”) dei carichi di cura interni alla coppia.

 

La conciliazione vita-lavoro: di cosa stiamo parlando?

La conciliazione vita-lavoro è un concetto ampio che indica il bilanciamento equilibrato tra lavoro e vita privata. Il riconoscimento di tale concetto prende forza tra gli anni Settanta e Ottanta – prevalentemente nel Regno Unito e negli Stati Uniti – a seguito dell’aumento della partecipazione femminile nel mercato del lavoro. Questo incremento pone al centro del dibattito pubblico alcune rivendicazioni dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici quali, ad esempio, il tema della genitorialità: i congedi parentali, la diffusione del part-time, la rimodulazione dell’orario di lavoro. Questi strumenti nascono con l’intento di consentire alle donne di mantenere l’occupazione e conciliarla con gli impegni da genitore. Negli ultimi anni, il concetto si è ulteriormente ampliato. L’introduzione dei congedi di paternità e di quote di congedo parentale dedicate ai padri contribuiscono a riequilibrare il ruolo di entrambi i genitori all’interno del nucleo. Al contempo, il tema non è più considerato esclusivamente in relazione ai genitori ma si estende a ciascun lavoratore e lavoratrice. Pertanto, si tratta di un diritto di equilibrare – più che di conciliare – vita e lavoro (“work-life balance” in inglese).

Nel 2016, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione in cui ha definito la conciliazione tra vita professionale, privata e familiare un “diritto fondamentale di tutti, con misure che siano disponibili a ogni individuo, non solo alle giovani madri, ai padri o a chi fornisce assistenza”. Facendo seguito a questa risoluzione, nel 2017 il Parlamento, la Commissione e il Consiglio hanno firmato il Pilastro Europei dei Diritti Sociali che dedica al work-life balance l’articolo 9. L’articolo riconosce ai genitori e alle persone con responsabilità di assistenza il diritto a un congedo appropriato, modalità di lavoro flessibili e accesso a servizi di assistenza, riconoscendo la necessità che uomini e donne abbiano pari accesso a tali istituti perché ne usufruiscano in modo equilibrato. Più recentemente, nel 2019, il Consiglio e il Parlamento hanno approvato un’ulteriore direttiva sul tema, individuando alcuni requisiti minimi standardizzati fra gli Stati Membri. Tra questi, si richiede l’introduzione di dieci giorni di congedo di paternità, la garanzia di almeno quattro mesi di congedo parentale, di cui almeno due personali (non trasferibili all’altro genitore), cinque giorni di congedo per lavoratori con responsabilità di cura, diritto per i genitori di figli piccoli di richiedere flessibilità sulle modalità lavorative.

In generale, queste politiche agiscono in tre modi: (1) attraverso trasferimenti o sgravi fiscali legati alla presenza dei figli; (2) con il miglioramento della gestione del tempo, attraverso congedi od obblighi contrattuali relativi alla flessibilità lavorativa; (3) mediante la presenza di servizi per la primissima infanzia. In merito al primo strumento, trasferimenti o sgravi fiscali legati alla presenza dei figli, la recente riforma sull’Assegno Unico Universale ha riordinato per la prima volta un sistema molto complesso e farraginoso. Da solo, però, non basta, perché non garantisce di per sé un maggiore equilibrio tra lavoro e famiglia. Quanto al secondo, il miglioramento della gestione del tempo, nel nostro Paese finora è stato il privato ad agire molto più del pubblico: anche a fronte della recente introduzione del congedo di paternità obbligatorio di 10 giorni, molte aziende stanno proponendo come benefit congedi ben più lunghi di quelli previsti dalla normativa.

Per ultimo, la presenza di asili nido, oltre ad essere un importante strumento di conciliazione, rappresentano un potente mezzo educativo per ridurre la povertà educativa con benefici in termini di sviluppo cognitivo e non cognitivo e di riduzione delle disuguaglianze di un ricorso più diffuso a servizi di cura formali di qualità. L’Italia ha sempre vissuto una grossa carenza di spazi educativi dedicati ai bambini sotto i tre anni rispetto ad altri Paesi europei e, nel corso degli anni, la domanda per questi servizi è aumentata più dell’offerta. In Italia, le più recenti innovazioni normative seguono due direttrici fondamentali: da una parte, si intende incoraggiare il coinvolgimento dei padri nel ruolo genitoriale, con l’introduzione del congedo di paternità retribuito al 100%. Inoltre, si sono ampliati i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori genitori – riconosciuti dal Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità del 2001 – a categorie di lavoratori inizialmente non incluse, ad esempio quelle autonome o iscritte alla gestione separata, al fine di aumentare la possibilità di flessibilità nell’utilizzo degli istituti di tutela (ad esempio, introducendo la possibilità di usufruire del congedo parentale in modalità oraria e altre misure affini).

 

Cosa ci dicono i dati?

Il sistema italiano di welfare si caratterizza tradizionalmente per la sua natura occupazionale (ovvero, incentrata sulla protezione del lavoratore piuttosto che del cittadino) e familistica (la famiglia è intesa come il luogo privilegiato di risposta ai bisogni di cura). Questo sistema presenta storicamente due importanti distorsioni, legate principalmente all’allocazione della spesa pubblica sociale. La prima – di natura funzionale – si riferisce allo squilibrio della spesa sociale a favore dei rischi legati alla vecchiaia. La seconda, quella distributiva, si articola lungo due linee di frattura: il divario tra insider (i lavoratori protetti, con contratti standard) e outsider (i “non-garantiti”, con contratti atipici e irregolari); la persistenza di un cleavage generazionale. Con le crescenti sfide sociali – ad esempio, la digitalizzazione nel mercato del lavoro, la globalizzazione e, più recentemente, la pandemia – tali divari si sono ulteriormente ampliati, agendo a svantaggio delle categorie più fragili, ad esempio, i giovani e le donne.  In questo contesto, all’aumento dell’occupazione femminile – seguito, inoltre, dalla sfida dell’invecchiamento demografico e dunque all’aumento di anziani non autosufficienti di cui prendersi cura – non sono seguite adeguate misure di supporto alle esigenze familiari e al loro bilanciamento con quelle lavorative. Il sistema è ancora fondato infatti su una forte dipendenza dal passato che, come detto, considera la famiglia come principale istituzione di cura e l’uomo – il modello malebreadwinner – l’unico lavoratore della coppia. Inoltre, l’aumento della precarietà lavorativa – che fa riferimento ai lavoratori con contratti atipici e precari – interessa maggiormente le donne.

L’OCSE dedica alla conciliazione due indicatori che descrivono la disponibilità di tempo libero e di cura della propria persona e la percentuale di dipendenti con una giornata lavorativa molto lunga. L’Italia occupa la posizione più alta dopo i paesi Bassi (16,5 a fronte di una media OCSE di 15 il dato più alto). Anche l’indice proposto dall’STAT per la costruzione del BES (2019) suggerisce come nella dimensione “lavoro e conciliazione dei tempi di vita” l’Italia registri maggiori difficoltà e divari negativi in Italia rispetto agli altri paesi europei, con la possibilità di evidenziare in particolare il peggioramento della situazione lavorativa delle donne rispetto agli uomini e delle donne con figli rispetto a quelle senza figli. Sono sempre di più le donne che rinunciano ad avere figli. Il tasso di fecondità è pari a 1,25 ed è diminuito (quasi) costantemente negli ultimi 10 anni.

Quanto al mercato del lavoro, in Italia le occupate sono poco più di una donna su due. Si tratta del 51,7% delle donne contro una media europea del 65,7%. La distanza fra Italia ed Europa è di 14 punti percentuali e supera i 25 punti percentuali se consideriamo paesi come la Danimarca, l’Olanda e la Svezia. Il tasso di occupazione femminile è più basso rispetto a quello maschile di 18,7 punti percentuali. Tale divario si riduce nel caso di uomini e donne senza figli (14,4 punti percentuali), ma aumenta quando ci sono figli attestandosi a 22,5 p.p. quando c’è un figlio, 32,2 p.p. quando i figli sono due e 43,2 p.p. quando i figli sono tre o più (Database I.Stat). L’aumento dell’occupazione femminile avrebbe un incentivo positivo sulla denatalità: le donne dovrebbero lavorare se ne hanno la possibilità e, se diventate madri, riuscire a rientrare nel mercato del lavoro quanto prima. E questa correlazione è ormai nota da anni. Nei Paesi OCSE, come quelli nordici, in cui le donne sono meglio inserite nel mercato del lavoro, il numero medio di figli per donna è più alto.  Le politiche di conciliazione vita-lavoro – se rivolte alla famiglia nel suo complesso, a madri e padri in egual misura – possono avere un ruolo fondamentale.

In relazione ai servizi per la prima infanzia, per concludere, le famiglie che se ne avvalgono tendono a differenziarsi sotto il profilo socio-economico rispetto ai nuclei familiari che – pur avendo figli/e di età 0-2 anni – non li utilizzano. I tassi di frequenza aumentano al crescere della fascia di reddito: solo il 19,3% dei bambini appartenenti a famiglie con redditi più bassi frequenta il nido, quota che passa al 34,3% per le famiglie con redditi più elevati (Database I.Stat). Si tratta dunque di un circolo vizioso: le diseguaglianze si tramandano di generazione in generazione. Il sottoutilizzo di questi servizi – che, oltre ad una funzione educativa possono anche svolgere un’importante funzione di conciliazione – determina in molti casi una più bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro o l’interruzione di carriera, prevalentemente della madre.

 

I dati della Provincia di Biella

In linea con i valori italiani, il tasso di natalità in Provincia di Biella continua a decrescere (da 7,1% nel 2012 a 5,2% nel 2021). Il tasso è inferiore rispetto a quello Italiano (6,8%) e Piemontese (6,2%) (Figura 1).

 

 

Aumenta, inoltre, l’età media della madre al primo parto, passando da 31,5  anni nel 2012 a 33,1 nel 2021 (vs 32,4 in Italia e lo stesso in Piemonte).

Aldilà dell’aspetto sociodemografico, la Provincia di Biella si colloca al di sopra della media piemontese e italiana in merito al tasso di occupazione femminile (60,5% vs 58,2% in Piemonte e 49,4% in Italia) e per il basso tasso di inattività delle donne (35% vs 35,1% in Piemonte e 44,6% in Italia). Questo primato positivo si conferma anche in relazione al divario di genere, sia nel tasso di occupazione (-9,3%) che di inattività (-8,8%) (Figura 2).

La situazione è altrettanto positiva – sebbene in misura inferiore – in considerazione della retribuzione lorda oraria delle posizioni lavorative dipendenti. La retribuzione lorda oraria in Provincia di Biella è pari a 11,01 euro l’ora (10,9 in Italia e 11,29 in Piemonte) (Figura 3).

Un altro dato di interesse, come detto in precedenza, riguarda il numero di bambini (0-2 anni e 0-4 anni) iscritti ai servizi educativi di prima infanzia. In Piemonte, nel corso dell’anno scolastico 2020/2021, il tasso di copertura dei servizi educativi (0-2 anni) è il 40,8% (circa due punti percentuali in più rispetto ai due anni scolastici precedenti). Quanto alla scolarizzazione dei bambini di quattro anni, il tasso è lievemente sceso, passando dal 93,7% nel 2018/2019 al 92,2% nel 2020/2021. In generale, il tasso del Biellese è – in entrambi i casi – più alto rispetto a quello del Piemonte (Figura 4).

 

Sebbene sarebbe necessario condurre ulteriori analisi di approfondimento sui fattori alla base del decremento del tasso di scolarizzazione dei bambini di quattro anni, i valori nel Biellese restituiscono una fotografia tuttalpiù positiva. D’altronde, l’attenzione verso il tema della conciliazione è testimoniata dal recente avvio del progetto “BI.Lanciare”. Il progetto è rivolto a donne residenti nella Provincia di Biella e in cerca di prima occupazione, disoccupate, occupate, professioniste con Partita Iva e con almeno un/a figlio/a da 0 a 17 anni e ISEE non superiore a € 30.000. L’obiettivo è fornire una consulenza qualificata sulla conciliazione per scoprire le opportunità sul territorio biellese; i diritti; i servizi al lavoro; e attività educative di qualità per i minori.

 

Prospettive presenti e future: il Family Act e la Legge di Bilancio 2023

Un intervento efficace, capace di sovvertire il paradigma familistico, implica un investimento sociale sostanzioso. Un punto di partenza importante è il Family Act. E’ infatti in via di attuazione la riforma – la cui Legge Delega è in vigore dal 28 aprile 2022 – che contempla le misure pensate per le famiglie da attuare con diversi decreti. Con questo pacchetto di deleghe al Governo, prendono corpo una serie di interventi a sostegno della genitorialità e dei giovani previsti nell’ambito del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza.

Il Family Act incide sulla materia della genitorialità e punterà alla funzione sociale ed educativa della famiglia e, inoltre, a contrastare la denatalità. La riforma prevede l’Assegno Unico e Universale per i Figli; le politiche di sostegno alle famiglie per le spese scolastiche ed educative; il potenziamento delle iniziative in favore dei figli affetti da patologie fisiche e non fisiche, compresi disturbi specifici dell’apprendimento; i contributi alle spese per l’acquisto dei libri di testo; i congedi parentali di paternità per tutte le categorie professionali; incentivi per le famiglie, per lo smart working e per gli affitti delle giovani coppie; agevolazioni per giovani universitari. Si tratta dunque di un pacchetto consistente di interventi che agiranno, direttamente e indirettamente, sulla conciliazione vita-lavoro dei genitori lavoratori e non, rivolgendosi – come testimoniano le misure per gli universitari – anche ai più giovani.

In continuità con quanto presentato, la Legge di Bilancio 2023 ha aumentato del 50% l’importo per i figli con meno di un anno per coloro che hanno almeno tre figli. Inoltre, è stato incrementato di circa 50 euro – passando da 100 a 150 – il contributo suppletivo per le famiglie con almeno quattro figli. Anche rispetto al congedo parentale, l’indennità corrisposta ai lavoratori dipendenti è passata dal 30% all’80% della retribuzione, per la durata di un mese. La maggiorazione vale per il padre o la madre e va fruita entro i primi 6 anni di vita del figlio.

Quelle di conciliazione costituiscono dunque un insieme di misure e di politiche intorno a cui costruire un welfare dell’investimento sociale – capace di mettere in campo interventi preventivi che riflettano una prospettiva di medio periodo e mirano a prevenire le situazioni problematiche intercettando precocemente le situazioni di vulnerabilità – e un welfare innovativo che guardi, in una prospettiva di lungo periodo, alla promozione del benessere complessivo degli individui.